La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23358/2016, torna ad affrontare il tema della tutela penale del mobbing. Chiamata a pronunciarsi su una vicenda in cui un dipendente era rimasto vittima di continue sfuriate, umiliazioni e comportamenti ostili e ridicolizzanti da parte del titolare di un’impresa, la Corte esclude la sussistenza dell’art. 572 c.p. nella vicenda in esame.
La sentenza non nega che le condotte di mobbing possano integrare gli estremi di cui all’art. 572 c.p. ma precisa che tale ipotesi può ricorrere esclusivamente nelle ipotesi lavorative compatibili con un contesto di c.d. <<parafamiliarità>> e non anche in una <<realtà aziendale normale>>.
Secondo la Corte di Cassazione, il mobbing può assumere rilevanza penale, ex art. 572 c.p., solo nel caso in cui le condotte vessatorie si inseriscano in un rapporto lavorativo di tipo para-familiare, ossia in un contesto lavorativo a ridotte dimensioni, in cui il rapporto di lavoro tra datore di lavoro e lavoratore subordinato si incardina sull’informalità e sulla fiducia.
Inoltre, quasi contestualmente al deposito delle motivazioni di questa sentenza, sempre la Cassazione ha pubblicato le motivazioni di una seconda sentenza, in cui, invece, si è ritenuto che le condotte vessatorie poste in danno a un lavoratore integrassero gli estremi del delitto di cui all’art. 572 c.p.
Tale discrasia è solo apparente. Infatti nella seconda Sentenza il soggetto vessato prestava la propria prestazione lavorativa in un contesto familiare, in cui si doveva interfacciare quotidianamente con i parenti dell’ex consorte: <<Le pratiche persecutorie finalizzate all’emarginazione del lavoratore possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia quando il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. Non occorre, pertanto, che ricorrano le condizioni formali di sussistenza dell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c.” (Cass. Pen., Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 44589).
Tale orientamento, pertanto, conferma la tesi dell’applicazione del delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p. alle sole ipotesi assimilabili alla parafamiliarità e proprio tale conferma potrebbe rafforzare ulteriormente l’orientamento giurisprudenziale (ad oggi maggioritario) che esclude la rilevanza penale delle condotte vessatorie sul luogo di lavoro nelle ipotesi di mobbing all’interno delle aziende di medio-grandi dimensioni.
D’altro canto, sempre tale orientamento precisa tuttavia che la mancata applicazione dell’art. 572 c.p. non esclude comunque che le condotte mobbizzanti siano tout court esenti da sanzione penale; infatti, ove sussistano gli estremi, le condotte vessatorie potranno integrare gli estremi di altre fattispecie penali: <<A dispetto della riaffermazione del principio dell’astratta configurabilità del reato nelle condizioni date e a conferma della frequente affermazione d’inapplicabilità nelle fattispecie considerate, va, infatti, precisato che la figura di reato di cui all’art. 572 c.p. non costituisce la tutela penale del c.d. mobbing lavorativo, il quale, ove dante luogo a condotte autonomamente punibili (ingiurie, diffamazione, minacce, percosse, lesioni personali, violenza privata, sequestro di persona, etc), trova nelle corrispondenti figure di reato il relativo presidio>> (Cass. Pen., Sez. VI, 29 settembre 2015, n. 45077).